DEL PROCESSO CREATIVO, DELLO STILE E DELLA FOTOGRAFIA COME ARTE MEDIA

steichen_rodin_penseur
fotografia di Edward Steichen: Rodin – Le Penseur

Il processo creativo è costituito da un certo numero di fasi non tutte necessarie, che si susseguono non sempre nello stesso ordine.
Di sicuro tra queste fasi c’è quella legata alla nascita dell’idea o al palesarsi di un’intuizione.
Poi c’è la fase della trasposizione materica dell’idea originaria, nella quale si individuano i mezzi, le tecniche, i medium e i materiali più idonei a “materializzare” quella particolare idea.
Da ultimo c’è la fase realizzativa, nella quale l’idea originaria prende vita all’interno del mezzo espressivo scelto, venendo plasmata e spesso “adattata” a quel mezzo.
E’ in quest’ultima fase, generalmente la più lunga, che si verifica una sorta di contatto tra interno ed esterno, tra spirituale e materiale: è come se i dualismi che scandiscono la nostra vita si annullassero in un ordine cosmico omnicomprensivo.
Non sto parlando – almeno non necessariamente – di arte e di artisti: sto parlando di creatività, e cioè di quella facoltà che può esprimersi anche nella realizzazione di qualcosa di estremamente semplice e che può dar luogo anche a qualcosa di già esistente, purchè in questo caso l’autore non ne sia a conoscenza.
E quanto più la fase realizzativa dura e si protrae nel tempo, tanto maggiori saranno gli effetti di questa fusione tra materia, spirito, coscienza, intelletto e memoria.
Il risultato finale somiglierà, talvolta, solo lontanamente all’idea originatrice, proprio perché durante la realizzazione saranno intervenute nuove necessità, nuovi slanci creativi, nuovi collegamenti logici e connessioni. E sono proprio questi ingredienti a costituire ciò che può essere definito “lo stile” nel senso più alto del termine: quelle peculiarità espressive differenti in ogni individuo che spesso affiorano in modo istintivo, senza predeterminazione, mostrando così la reale essenza dell’autore.
Questo è il motivo per il quale nemmeno l’autore è in grado di conoscere il senso ultimo della sua creazione: perchè durante l’atto realizzativo è stato per alcuni istanti o per lunghi periodi un mezzo anch’egli, quasi pilotato e manovrato da energie e consapevolezze ancestrali, da una sorta di memoria collettiva.
Per questo ritengo sia utile ascoltare ciò che gli altri hanno da dire sul nostro lavoro e sulle nostre realizzazioni.
La fotografia, in questo, si differenzia dalle altre forme d’arte o meglio dalle altre forme di espressione creativa: a meno di casi particolari infatti, la fase realizzativa si riduce ai brevi istanti precedenti lo scatto.
La fotografia gioca più su principi istintuali, anch’essi somma delle nostre esperienze e preferenze, delle nostre idee e delle nostre aspirazioni, ma tutto giocato su un intervallo temporale troppo breve affinchè quei flussi e quelle energie cui facevo riferimento poco sopra possano palesarsi e diventare parte dell’opera. Per questo, e secondo me solo per questo, la fotografia è un’ Arte Media.

(eloj)

Autodichiarazione di incapacità di intendere, ma non di volere (intendere)

Ormai il comportamento si è reso esplicito: quando visito spazi museali o gallerie d’arte e mi imbatto in un corpus di opere che tutto lascia presupporre siano importanti opere d’arte e non riesco a percepire autonomamente questa grandezza, inizio a fotografarle.

foto di eloj - opere esposte di Carrol
foto di eloj – opere esposte di Carrol

Scompongo e ricompongo, unisco più opere tra loro, le metto in relazione con gli spazi e gli elementi presenti nell’ambiente espositivo fino a farmele piacere. Insomma rivisito quelle opere e così facendo entro in contatto più stretto con loro, nella speranza, forse, di poterne cogliere l’intrinseco valore.

foto di eloj - opere esposte di Carrol
foto di eloj – opere esposte di Carrol

 

foto di eloj - opera esposta di Carrol - estintore
foto di eloj – opera esposta di Carrol

Questa volta è il caso di Lawrence Carrol, un artista australiano che ho visto al MAMBO (Museo di Arte Moderna di Bologna). Poiché non lo conoscevo, mi sono fatto spiegare da una ragazza addetta all’accoglienza quali fossero le prerogative di questo artista, se ci fosse un tema dominante sviluppato nelle sue opere; insomma ho cercato di procurarmi in fretta e furia delle chiavi di accesso per almeno comporendere a livello razionale il lavoro dell’artista.

foto di eloj - opere esposte di Carrol
foto di eloj – opere esposte di Carrol

 

foto di eloj - opere esposte di Carrol
foto di eloj – opere esposte di Carrol

I materiali utilizzati sono pannelli in legno, tavole e oggetti di recupero, quindi materiale povero, di scarto; questo potrebbe avere, mi si dice, dei legami psicologici col padre dell’artista, abile restauratore.

Quei pannelli di legno, lacerati e rattoppati con materiali di recupero, potrebbero simboleggiare le ferite del corpo, che vengono curate e rimarginate lasciando sempre leggere tracce sulla nostra pelle, una sorta di indelebile racconto autobiografico; il bianco potrebbe rappresentare una sorta di ripartenza, di candore anche mentale forse, scevro da pregiudizi e preconcetti e, azzardo io, facendo un volo pindarico non privo di rischi, forse tutto ciò allude ad una sorta di pietas, di attenzione ai deboli e agli emarginati, ma anche all’ipocrisia dell’uomo che spesso copre o nasconde le proprie imperfezioni mostrando una faccia pulita e candida, oppure esprimere la condizione del nostro pianeta terra, mortificato da speculazioni e sfruttamento delle risorse in nome di un autodichiarato candido progresso del quale ci illudiamo far parte come esseri umani.

foto di eloj - opere esposte di Carrol
foto di eloj – opere esposte di Carrol

Molti continuano a ritenere che l’arte contemporanea possa essere compresa in modo intuitivo, perché il linguaggio dell’Arte si dice, è universale.
Io non sono di questa opinione e credo che l’arte moderna ma più in generale tutta l’arte, possa essere compresa soltanto attraverso una conoscenza approfondita dei contesti, dei protagonisti, e di tutto quanto possa fornirci delle chiavi di accesso che ci consentano di capire.

Solo dopo aver capito, secondo me, è possibile lasciarsi andare e godere pienamente di un opera d’arte.

CRISTIANA PIERONI – RECENSIONE NON AUTORIZZATA

Cristiana è nella vita uno spirito libero e combattivo.
Artisticamente, pur praticando l’acquarello, l’incisione e l’olio, esprime la sua personalità attraverso le due tecniche che predilige: china e acrilico.

foto di eloj
foto di eloj
Cristiana - foto di eloj
Cristiana – foto di eloj

Due atteggiamenti e approcci diversi che mostrano però quell’ impellente necessità di rompere gli argini e infrangere le regole: in un caso con la libertà del gesto pittorico, nell’altro attraverso i soggetti e i temi rappresentati.

foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj

Quando Cristiana si isola nel suo universo artistico, dispone di un potenziale energetico e creativo che va assolutamente smaltito e ci sono due modi per farlo: fisicamente attraverso una pittura che fa uso di spatole e dripping, oppure mentalmente, trasformandolo in visioni, utilizzando quell’energia per alimentare un immaginifico proiettore mentale.

opera di Cristiana Pieroni
opera di Cristiana Pieroni

Il suo agire non è mediato dalla ragione – almeno non in fase esecutiva – ma da un rapporto simbiotico con l’opera: un’immedesimazione con ciò che sta realizzando; quasi un disegno automatico alla maniera surrealista, che prende forma e concretezza nel suo divenire, senza sovrastrutture o leziosismi esecutivi, come vi fosse una foga nel voler dir subito tutto quello che si ha da dire per paura che poi svanisca: una sorta di “visione” esecutiva, alla quale sia impossibile sottrarsi.

opera di Cristiana Pieroni
opera di Cristiana Pieroni

I suoi lavori in acrilico mostrano la sua irruenza: le pennellate sono decise, le campiture ampie e il dripping e l’uso della spatola esprimono fisicità e temperamento.
Non le basta produrre un’opera: vuole lasciare in essa una traccia di sé!

opera di Cristiana Pieroni
opera di Cristiana Pieroni

I lavori a china mostrano un altro aspetto della sua poliedrica personalità.
Il tratto è preciso e dettagliato; Cristiana riesce in questo caso a convogliare la sua “loquacità espressiva”, non più nell’azione della spatola o del dripping, ma nei soggetti rappresentati.
Il controllo e la disciplina che questa tecnica richiede, imbrigliano l’energia vitale dell’artista che deve così cercare nuove e differenti modalità per darle sfogo. E ciò è ottenuto attraverso la rappresentazione di un mondo interiore affascinante ed inquietante al tempo stesso, popolato da animali ed elementi simbolici, tessuti insieme per realizzare scenari apocalittici nei quali la natura è vincente nei confronti dell’uomo, quasi si riappropriasse della propria centralità, ingiustamente sottrattagli con l’astuzia e l’inganno.

opera di Cristiana Pieroni
opera di Cristiana Pieroni

Un mondo popolato da forme di vita ottenute attraverso trasmutazioni e incroci, animali metamorfici che formano grovigli inestricabili nei quali l’uomo trova una collocazione spesso marginale e subalterna.
Le ansie, le paure e le contraddizioni dell’artista si mischiano ai sogni e ad una visione unitaria della realtà e della natura, dove le forme di vita sembrano ancora in un primitivo stadio di indifferenziazione.

opera di Cristiana Pieroni
opera di Cristiana Pieroni

Genio e sregolatezza, unite a disciplina e padronanza tecnica coesistono in Cristiana che non potrebbe – nemmeno volendo – dipingere ciò che non sentisse come proprio, come intima manifestazione della sua anima.

foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
Cristiana - foto di eloj
Cristiana – foto di eloj

Questa immedesimazione artistica è così connaturata in lei da manifestarsi anche e soprattutto nei gesti quotidiani, nella scelta degli arredi e degli allestimenti della casa, e negli abiti che indossa. Insomma lei è frutto della sua arte: la sua manifestazione ed espressione più esplicita.

foto di eloj
foto di eloj

Per conoscere e capire meglio i suoi lavori è sufficiente quindi conoscere l’artista, ascoltare i suoi racconti durante una cena accompagnata da un calice di buon rosso, possibilmente di Montalcino.
Sostiene di non mangiare per nutrirsi e di non bere per dissetarsi: per lei mangiare e bere sono esperienze di vita, ed è proprio durante i momenti di convivialità che l’artista si manifesta, questa volta attraverso i suoi racconti e le sue descrizioni dai quali traspare un mondo interiore ricco di dettagli osservati e di particolari percepiti, rielaborati e formalizzati fino a divenire complesse trame narrative al pari delle sue chine, o estreme sintesi al pari delle sue tele.

foto di eloj
foto di eloj

In lei coesistono le infinite tonalità cromatiche, nell’accogliere la vita in tutte le sue sfumature, e il netto e lapidario bianco e nero nell’ affrontarne le prove, armata di accetta, senza compromessi, portando fino all’estremo le sue scelte; guai se non fosse così: la sua arte diverrebbe impura, segnata da un peccato originale.
Non c’è copia o emulazione; mai!

foto di eloj
foto di eloj

L’unico modo a lei possibile per esprimere la propria arte è quindi quello di “esprimere” se stessa: di svuotarsi come un tubetto di colore sulla tela; di intrappolare nella densità pittorica parte dei suoi gesti e della sua energia, o ingabbiarla nelle fitte trame delle sue chine.

Questa è Cristiana per me.

foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj

foto di eloj

foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj

STUDIUM E PUNCTUM – RISPOSTA SEMISERIA A BARTHES

Osservare i lavori di altri rappresenta sempre e comunque un momento di crescita personale. E perché ciò sia proficuo è necessario entrare in relazione con l’opera: capirne la genesi, le motivazioni, la finalità, inserire il lavoro nel contesto del continuum produttivo dell’autore. Ogni tassello rappresenta un piccolo passo sulla difficile strada che conduce alla comprensione dell’opera.

Spesso però ci sentiamo irrimediabilmente attratti da un’immagine in modo quasi viscerale, senza comprendere il motivo di tale attrazione, e ciononostante il nostro appagamento è totale.
E’ come se quell’opera risuonasse in nostra presenza, come fosse stata lì ad attendere il nostro passaggio per mostrarci qualcosa di intimo e personale. Forse in quelle circostanze, più che osservare il dipinto o la fotografia, ci specchiamo in essa fino a riconoscere in quei segni, in quelle tracce del reale, aspetti della nostra vita e della nostra personalità.

Talvolta può essere un colore ad attrarci

foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj
foto di eloj

talaltre ci riconosciamo nelle forme di un soggetto

foto di eloj
foto di eloj

o riconosciamo una persona a noi cara

foto di eloj
foto di eloj

ci sono casi poi,  in cui una fotografia sembra essere un fotogramma estratto dal film della nostra vita.

risonanze
foto di eloj

 

E quando ci capita di fermarci a lungo di fronte ad un’ opera, in atteggiamento contemplativo, in realtà stiamo soltanto cercando il nostro riflesso, confuso e nascosto in una miriade di altri riflessi…..

_6173172_small_web
foto di eloj

 

…perchè, parliamoci chiaro:  ogni lavoro artistico, se ben fatto,  ha qualcosa di personale da dire a ciascuno di noi!

HO INCONTRATO DUCHAMP ALL’ESSELUNGA

fleur de sel de Camargue - foto di eloj
fleur de sel de Camargue – foto di eloj

Stamattina di fronte allo scaffale del sale al supermercato ho avuto una folgorazione: accanto alle confezioni da kg di sale fino e grosso a prezzi che oscillavano tra i 20 e gli 80 centesimi ho visto una confezione cilindrica di cartone con tappo in sughero che mi è subito risultata familiare.
Si tratta di “fleur de sel de Camargue” cioè quella cristallizzazione sottile che si forma sulla superficie dello strato di sale, ancor prima che l’acqua nelle vasche della salina sia completamente evaporata, che viene raccolta ancora a mano dai “Sauniers” e – dicono – abbia caratteristiche organolettiche più pregiate rispetto al comune sale che poi verrà raccolto con mezzi meccanizzati.

Salina du Midi di Aigues Mortes - foto di eloj
Salina du Midi di Aigues Mortes – foto di eloj

Ebbene ricordo di aver comprato quella scatoletta cilindrica durante la visita alla Salina du Midi di Aigues Mortes. L’ho comprata non con l’intenzione di usarne il contenuto in cucina ma per avere un ricordo di quella visita, un oggetto tangibile e duraturo da poter mettere nella vetrinetta insieme agli altri “ricordi di viaggio”. Ogni oggetto in quella vetrina ha un sapore particolare per me, mi riporta immediatamente al luogo e al posto in cui è stato acquistato o trovato o reperito. Non si tratta di pezzi di valore, o almeno quasi nessuno: hanno per me una valenza affettiva e rammemorativa.

tazzina_di_terracotta
tazzina per il chai – foto di eloj

L’oggetto a cui sono più affezionato è una tazzina di terracotta fatta a mano nella quale mi è stato servito il tè su un treno indiano, in una di quelle soste in stazione durante le quali decine di venditori entrano nei vagoni proponendo la loro mercanzia, per poi ridiscenderne un attimo prima che il treno riparta: si tratta di una tazzina usa e getta, come potrebbe essere un bicchiere di plastica dalle nostre parti, solo fatta in terracotta. La conservo come una reliquia perché ogni volta che la riprendo in mano e ne percepisco la rugosità mi riporta a quel viaggio, a quel trasferimento in treno e soprattuto mi parla di una cultura completamente differente dalla mia, dove è più conveniente e forse pratico usare la terracotta al posto della plastica.
Stamattina lo stupore è stato duplice: intanto per aver ritrovato all’Esselunga di Viareggio la stessa confezione comprata in Camargue dove essa viene prodotta, e poi per averla pagata soltanto dueeuroesettantuno contro i quattro o cinque spesi nella terra d’origine.

readymade - tratto da internet
readymade – tratto da internet

Non ho potuto non pensare a Duchamp e ai suoi ready made, cioè a quegli oggetti d’uso comune – il più famoso dei quali è il famoso orinatoio firmato con lo pseudonimo R. Mutte e datato 1917 – che posizionati in un museo o in una galleria espositiva si trasformavano in oggetti d’arte.
Questa idea Duchampiana che poneva l’artisticità di un oggetto non più in una sua qualità estetica, fisica o realizzativa ma in una semplice dichiarazione di artisticità da parte dell’artista (e ovviamente del gallerista che lo assecondava esponendo l’opera in uno spazio pubblico) ha sconvolto nei primi anni del 900 gli ambienti artistici e tutt’ora ha ricadute positive e negative sull’arte contemporanea.
Positive perché questo terremoto ideologico ha aperto le porte di musei e gallerie a forme ed espressioni artistiche nuove; negative perché in questo marasma produttivo diventa veramente difficile ritrovare una matrice artistica oggettiva dipendente da qualche criterio condiviso.

art basel - foto di eloj
art basel – foto di eloj
art basel - foto di eloj
art basel – foto di eloj

Girando per fiere dell’arte e gallerie in giro per l’Europa, non è difficile per me riscontrare nelle opere esposte quest’idea Duchampiana di arte come dichiarazione: mi capita di vedere spesso opere sia fotografiche che pittoriche ma soprattutto istallazioni che mi portano obbligatoriamente a chiedermi se sia io a non possedere gli strumenti giusti per apprezzarle o se non siano piuttosto queste opere, degli enormi ammassi di ready-made per i quali sia necessario compiere un atto di fiducia per definirli “artistici”. Credo che la verità stia nel mezzo.
Ma torniamo per concludere a Duchamp incontrato all’esselunga.
Le confezioni si differenziano soltanto per una copertura illustrata in carta tutt’intorno alla confezione, che mostra l’ambiente delle saline con qualche fenicottero e una scritta in caratteri più grandi su sfondo chiaro che risulta più leggibile rispetto a quella dell’altra confezione, che esibisce scritte più piccole e una delicata riproduzione a matita dei luoghi; per il resto le confezioni sono identiche così come il loro contenuto.
Nel metterle vicine per il confronto e nel mostrarle ad un familiare ho finito per non essere più certo di quale sia delle due l’“ORIGINALE”. “Ma sono uguali!” mi si potrebbe rispondere, “che differenza vuoi che faccia se nella vetrina metti una o l’altra?”
Ma come? Allora le parole di Duchamp non vogliono dire niente?
Quelle due confezioni hanno per me delle valenze completamente differenti: una è un ricordo di un viaggio e di un luogo, che ho scelto di acquistare tra altri souvenirs più o meno pacchiani e di custodire gelosamente nella mia vetrinetta mostrandola agli amici insieme alle uova di struzzo decorate, alle zanne di facocero e alle zucche Peruviane intagliate con storie contadine; l’altra è un pregiato sale da cucina da usarsi con parsimonia e da esibire magari durante qualche cena con amici. Ma tutte queste valenze attribuite ad una confezione sono soltanto sovrastrutture mentali, connotazioni che io appiccico in modo soggettivo a quella confezione senza alcun legame con proprietà o caratteristiche dell’oggetto in sé.
Ora finchè non sarò tornato all’Esselunga per accertarmi di quale sia la confezione acquistata stamattina, le lascerò intatte entrambe: non potrei mai perdonarmi il fatto di aver aperto la confezione sbagliata e non potrei mai mettere il sale dell’Esselunga nella vetrinetta insieme agli altri cari ricordi.
E tutto ciò non solo è lecito ma anche ragionevole, come è ragionevole osservare l’orinatoio di Duchamp (in realtà una copia autenticata di quello originale che è andato perduto) nella Galleria Nazionale a Roma ripensando alla rivoluzione artistica e culturale che esso ha determinato, e usare invece le molteplici copie presenti nei bagni degli autogrill sull’autostrada per svolgere la più ordinarie ma altrettanto soddisfacenti funzioni fisiologiche quotidiane.

L’ARTE DI SCOPERTA

foto di eloj
foto di eloj

Si può fare arte stando fermi?
Senza muovere un solo muscolo del corpo?
Senza utilizzare alcuno strumento o materiale?
Io credo di sì: si può fare arte di scoperta, individuando elementi od oggetti nella realtà circostante, che spogliati delle loro precipue peculiarità e funzioni “native”, possono trasformarsi in qualcosa d’altro assumendo valenze e significati nuovi.
Fare arte spesso presuppone una trasformazione nel rapporto che lega oggetto e fruitore. Nel caso più tipico, il gesto artistico modifica le qualità di un corpo o di una superficie attraverso aggiunte o sottrazioni di materia, con l’intento di raggiungere un determinato risultato visivo o comunque esperibile attraverso gli organi di senso. Il pittore aggiungerà pigmento sulla tela, lo scultore toglierà materia dal marmo o da un pezzo di legno, il musicista, agendo sul proprio strumento produrrà suoni, lo scrittore aggiungerà segni su un foglio bianco decifrabili attraverso un codice linguistico condiviso con altri.
Ma il rapporto tra oggetto e fruitore può essere trasformato anche indicando un nuovo modo di vedere la realtà; e per far questo talvolta è necessario modificare il contesto per eliminare eventuali elementi di disturbo, talaltre è sufficiente assegnare un nuovo nome all’oggetto per far sì che anche gli altri, possano vedere quell’oggetto con occhi diversi, decidendo poi se condividere o rifiutare quella nuova visione.
Questa seconda modalità di fare Arte, sembrerebbe, per come è stata descritta, non richiedere alcuno sforzo fisico…..purtroppo non è sempre così.

foto di eloj
foto di eloj

Avevo notato questo tronco straccato dal mare e subito avevo visto in quelle linee forti analogie con un crocifisso di Giotto o di Cimabue: vedevo in quelle curve la torsione del busto, le gambe flesse con i piedi giunti inchiodati alla croce, con le braccia alte sopra le spalle a seguito del cedimento del corpo verso il basso, con la testa inerme che diviene un tutt’uno col torace.
Così la mattina seguente sono andato di buon ora a fare qualche fotografia, prima che la spiaggetta si popolasse…..ed è cominciato il lavoro!
Ho tolto gli altri legni ammassati irrispettosamente sulla mia opera, poi ho girato leggermente il tronco così da creare un’ombra armonica sulla sabbia. Era molto pesante: sono riuscito a ruotarlo di pochi gradi prima che si incagliasse. Poi ho pulito alla meglio la sabbia tutt’intorno togliendo tappi di birra, mozziconi di sigaretta e cercando di pareggiare un po’ buche e avvallamenti vari. Mentre scattavo, sentivo che quel tronco stava diventando parte di me: era come se avessi riesumato un antico reperto archeologico nascosto da un sottile strato di terra, e dopo averlo ripulito esso fosse adesso visibile a tutti nel suo splendore e nella sua magnificenza. Si trattava adesso di portar via quella merviglia – almeno ai miei occhi – e metterla al sicuro; già, ma come?

Con un amico sono ritornato alla spiaggetta nel pomeriggio; dopo i primi infruttuosi tentativi di spostarlo, abbiamo usato un altro grande tronco cilindrico come rullo; aiutati da altre due persone abbiamo alzato il tronco, messo sotto il rullo, spinto: il metodo si è rivelato funzionare e siamo riusciti a guadagnare il mare.
Dalla spiaggia sarà sembrato che stessimo trasportando un cetaceo o un delfino spiaggiato.
Arrivati di fronte allo stabilimento balneare i cui proprietari avevano gentilmente accettato di ospitarlo, abbiamo cercato un modo per tirare fuori dall’acqua quell’esemplare arboreo di tre metri e mezzo e del peso di più di duecento chilogrammi. Dopo innumerevoli sforzi e tentativi falliti abbiamo trovato una procedura efficace che consisteva nel ribaltarlo quattro o cinque volte, disegnando una sorta di arco di circonferenza di due metri circa, e poi, nell’ultimo ribaltamento, mantenerlo in equilibrio su uno sperone posizionato circa nel centro e ruotarlo sul piano orizzontale di circa 160 gradi, e così via di seguito. Dopo due ore di lavoro siamo riusciti a fargli compiere i circa centocinquanta metri che lo separavano dalle cabine. Eravamo esausti e pieni di sabbia, ma soddisfatti!
Adesso non resta che dargli una ripulita, una mano di coppale e trovare un ambiente dove possa far degna mostra di sè.

L’ETERNO E L’EFFIMERO

foto di eloj
foto di eloj

Alla National Gallery di Londra, come in tutti gli altri musei e gallerie che ho visitato in quella città, ad eccezione della National Portrait Gallery, si può fotografare.
Dubito però che il personale di servizio presente nella sala in cui è esposto il ritratto d’uomo di Antonello da Messina abbia mai visto un turista scattare una serie di fotografie, tutte allo stesso quadro, dalla stessa posizione e senza modificare le impostazioni della macchina; quel qualcuno ero io.
Ma c’è un motivo ben preciso che mi ha spinto a farlo: soffermandomi per un po’ di fronte a questo splendido ritratto avevo notato un impercettibile movimento di fronte alla tavola; ebbene un invisibile filamento manteneva sospeso a mezz’aria un piccolo batuffolo di polvere fluttuante sulla campitura delimitata dalla cornice, sotto l’azione delle correnti d’aria. Un dipindo di quasi 600 anni, acquistato nel 1883 dalla National Gallery e probabilmente esposto nello stesso anno veniva perturbato e percepito da un osservatore non più come qualcosa di immobile ed immutabile nel tempo e nello spazio ma piuttosto come una configurazione visiva mutevole e diversa in ogni istante. Grazie al lavoro non accuratissimo della squadra che si occupa delle pulizie, ho potuto assistere ad una sorta di animazione o meglio “rianimazione solo per i miei occhi” di questo ritratto di quasi 600 anni. Un’esperienza elettrizzante ed irripetibile direi: un luogo per antonomasia custode della memoria collettiva, mette in scena uno spettacolo riservato ad un solo spettatore!