Fotografare come filosofia di vita

Prendiamo un lapis.
Lo può usare l’alimentarista per segnare su un pezzo di carta marrone il conto di una cliente, lo può usare il muratore per tracciare dei segni sul muro, l’architetto per il progetto di una casa, il ritrattista per una caricatura, l’ingegnere per un calcolo strutturale a verifica del risultato fornito dal computer, un abile disegnatore per realizzare una vignetta, un grande artista per il cartone preparatorio di un grande dipinto o un affresco.

La macchina fotografica è come un lapis.
La può usare il poliziotto della scientifica per rilevazioni sul luogo del delitto, il nonno per fotografare la comunione del nipotino, il turista per portare a casa qualche ricordo o, nel peggiore dei casi, per ricordarsi di aver fatto una vacanza, la può usare il fotoespressivo per esprimere se stesso, il fotografo sportivo per immortalare un’ azione da goal, il fotoreporter d’assalto per riprendere le cosce di una letterina mentre scende dall’auto, l’inviato di un giornale per ritrarre il politico di turno durante un comizio, Renzi per farsi un selfie con qualche capo di stato straniero.
La macchina fotografica è un mezzo e come tale si presta a svariati utilizzi e finalità.

(foto di eloj)
(foto di eloj)

Ma arriva un momento nel quale la pratica fotografica, associata ad una personale ricerca visiva, apre una breccia nella realtà, mostrandone tutta la falsità e svelandone trucchi e inganni.
Fotografare diventa così un esercizio filosofico, un’indagine sulla realtà e sugli individui.
Ogni volta che si “prenderà” una fotografia ciò equivarrà a rivendicare la nostra visione personale e soggettiva. L’atteggiamento e l’attitudine mentale che avremo guardando attraverso il mirino della nostra fotocamera diventeranno a poco a poco parte di noi e si manifesteranno in ogni situazione e contesto, anche in assenza della nostra fotocamera.
Certamente si diventa più scettici e possibilisti: non esiste più una verità unica e incontrovertibile, ma esistono per ogni situazione, più verità equipollenti e ciascuno potrà scegliere tra queste, quella che gli farà più comodo in quel momento o che giudicherà eticamente più giusta o più efficace per il maggior numero di individui.
Ma nel momento della scelta sarà comunque sempre consapevole di aver fatto una scelta soggettiva.
Certamente si diventa più insofferenti di fronte alla pubblicità, alle chiacchiere dei politici, agli articoli dei giornali, che mostrano in modi e misure differenti realtà soggettive – quando non addirittura fasulle – spacciandole per l’unica realtà possibile.
Credo che la fotofilosofia renda chi la pratichi più distaccato dalla realtà.
Come se in ogni situazione si assistesse ad una rappresentazione teatrale, rendendosi conto che in fin dei conti è tutta una finzione, che ciascuno sul palco interpreta la parte per la quale si è preparato per un’intera vita, o che gli è più comoda, o che suo malgrado gli è stata appioppata da qualcun altro.
Una volta che si è aperta questa breccia nella realtà, niente sarà più come prima. Talvolta la puzza di finto e superficiale sarà così forte da nauseare.
Fotografare diventerà una filosofia di vita…. e forse ciò potrà anche non piacerci.

(eloj)

FOTOGIORNALISMO E WPP

Mi chiedo se sia giusto, all’interno di un prestigioso concorso internazionale che si definisce “fotogiornalistico” utilizzare criteri di valutazione che pertengono più ad aspetti esteticoformali che non ad aspetti contenutisticoinformativi. Se non ci sia già, nella ricerca del bello, una sorta di rottura del patto tra fotografo(giornalista) e lettore. Cioè a dire: quanto del reale contenuto informativo viene sacrificato – dal fotografo prima, e dalla redazione successivamente – per inseguire aspetti compositivi e formali capaci di far presa sul lettore, che siano accattivanti e abbastanza forti da smuovere quel poco di sensibilità visiva ancora rimasta?

Per affrontare la questione cito due casi abbastanza noti:

Il primo è il caso Brian Walski, descritto anche nel libro “Un’autentica Bugia” di Michele Smargiassi.
La vicenda si svolge nel 2003: il giornalista sta coprendo la guerra in Iraq e invia alla redazione del Los Angeles Times un’immagine di un campo profughi, ottenuta unendo insieme due fotografie scattate a brevissima distanza di tempo, più o meno dal medesimo punto di ripresa. Con tale operazione, il giornalista riesce a produrre un’immagine ricca d’azione, col soldato americano che sembra intimare l’alt ad un padre con in braccio il figlio (allo stesso tempo, aggiungo io, sembra anche che qualcuno tra la folla faccia il verso con la mano al militare).
3-iraq-manipulada_triptico-ed_550Walski viene licenziato in tronco per aver tradito i principi etici del giornale, avendo effettuato una leggera manomissione della realtà, senza per altro alterare o modificare minimamente – a mio avviso – il senso e la veridicità della scena ripresa.

In questo caso quindi, il giornale in questione, antepone a tutto delle stringenti regole comportamentali, definite ipocritamente etiche; intanto mi chiedo se tra queste regole non vi fosse anche quella di non omettere dei fatti importanti che potrebbero mostrare aspetti non in linea con gli orientamenti del giornale.

In soldoni: è più dannoso per il lettore “subire” un lieve fotomontaggio oppure non ricevere parte delle informazioni su una vicenda o su un evento?

Il secondo caso riguarda più da vicino il WPP, cioè l’ambito concorso fotogiornalistico del quale sto mettendo in discussione i criteri di valutazione.
Edizione WPP del 2010. Rudik si aggiudica il podio nella categoria Sport Features con la seguente immagine:

rudikSuccessivamente viene squalificato perché i giudici, confrontando il raw con l’immagine finale hanno rilevato una manomissione contraria alle regole del WPP stesso.Vediamo di cosa si tratta:

rudik1 rudik2Il fotografo ha cancellato un’antiestetica scarpa di un personaggio in secondo piano, che andava a sovrapporsi alla mano, divenuta poi soggetto proncipale della scena.

Di nuovo mi chiedo – visto che stiamo parlando di fotogiornalismo e non di fotografia staged o di fotografia artistica – se sia giusto per il lettore osservare quell’immagine in un bianco e nero sgranato che acquisisce così una drammaticità certamente smisurata rispetto alla realtà dei fatti, e se attraverso quell’immagine il lettore sia in grado di farsi un’idea quanto più attinente al vero, della situazione ripresa.
E mi chiedo altresì se sia giusto, che in un concorso fotogiornalistico sia più grave la cancellazione di una ininfluente scarpa, piuttosto che la manomissione del senso stesso della fotografia attraverso pesanti alterazioni formali ed estetiche – perchè di questo si tratta – della realtà rappresentata.

Veniamo così alle ultime edizioni del WPP.

Devo dire che dopo aver visto i premiati dell’edizione 2013 esposti a Lucca, ho deciso che non avrei più visitato a pagamento quel genere di mostra.
Il perchè è semplice, almeno dal mio punto di vista.
In alcuni casi c’è un’estetizzazione del dramma che trovo inaccettabile trattandosi di fotogiornalismo: contraria non dico a principi etici ma più semplicemente al comune buonsenso.
E’ da capire se le varie testate giornalistiche siano costrette ad adeguarsi loro malgrado ad una crescente insensibilità del loro pubblico, oppure,  se questa insensibilità sia proprio stata generata dal bombardamento mediatico subito quotidianamente attraverso immagini sempre più eclatanti, crude e teatrali al tempo stesso.
In molti casi le fotografie premiate non sono più allusive, cioè non sono più indizi che il lettore dovrà poi ricomporre secondo la propria sensibilità, facendosi un personale quadro generale della situazione, ma divengono così esplicite da privare il lettore di una qualsiasi possibilità interpretativa.  Le vicende non sono più raccontate attraverso un meccanismo metonimico che allude alla causa mostrando l’effetto, o al tutto mostrando dei particolari, ma vengono descritte attraverso immagini così esplicite da generare talvolta raccappriccio. Ricordo ancora la serie di Stephan Vanfleteren che si è aggiudicato nle 2013 il primo premio nella categoria “staged portraits” con un lavoro su una nave ospedale ormeggiata di fronte alle coste della Guinea. Le foto esibite a Lucca non erano sicuramente tra le peggiori rispetto all’intero lavoro.

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Concludo queste poche e probabilmente imprecise considerazioni trattando un ulteriore aspetto che mi parrebbe essere emerso con le ultime edizioni del WPP e cioè quella tendenza a produrre fotografie che mostrino situazioni nelle quali i soggetti ripresi sono attori che interpretano se stessi o comunque sono ripresi in atteggiamenti e azioni che mai si sognerebbero di mettere in atto se qualcuno li stesse ossrvando; mi riferisco a scene di violenza all’interno delle mura di casa, o ad azioni teatralizzate che mostrano chiaramente l’atteggiamento recitativo assunto dai soggetti ripresi.

Stiamo ancora parlando di Fotogiornalismo, mi chiedo?
Perchè in conclusione io non critico il WPP nella sua funzione di concorso internazionale aperto ai soli professionisti; critico il fatto che esso si definisca un Concorso Fotogiornalistico.

Chissà se nel giro di pochi anni, le uniche immagini accettate dall’opinione pubblica non saranno quelle che mostrano la crudezza di un evento proprio nel momento in cui questo si consuma, come la deplorevole immagine del Viet Cong giustiziato con un colpo di rivoltella alla tempia, ripresa da Eddie Adams proprio nel momento in cui veniva premuto il grilletto da parte dell’ufficiale del Vietnam del Sud, con la quale Adams si è aggiudicato il premio Pulitzer e il WPP.

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Susan Sontag si chiedeva se quel grilletto, in assenza del fotografo, sarebbe stato comunque premuto, e forse anche Eddie Adams deve esserselo chiesto più volte, negli anni successivi.

(eloj)

LA FOTOGRAFIA A KM ZERO

C’è una sostanziale differenza tra fotografare luoghi esotici o importanti città o ambienti che possiedono una propria peculiarità e fotografare la propria città, quella cui sentiamo in quel momento di appartenere.
Nel primo caso gli spunti fotografici sono molteplici: tutto è nuovo e interessante per noi: le architetture, gli usi i costumi. Otterremo probabilmente delle buone fotografie ma – salvo rarissime eccezioni – ci saremo mantenuti sulla superficie esterna delle cose; il tal giorno ci troviamo in un luogo, scattiamo indipendentemente dalle condizioni di luce, indipendentemente dalla presenza o meno di congiunture o coincidenze particolari che possano mettere in luce aspetti profondi di quel luogo; il giorno successivo saremo in un altro posto e ricominceremo da capo.
Fotografare la propria città significa prima di tutto saper attendere e poter attendere il momento buono per scattare una certa fotografia: se un giorno il cielo sarà coperto aspetteremo il giorno successivo o la successiva occasione. Significa imbattersi nel caso propizio con maggior probabilità perchè ci troveremo a passare più e più volte dagli stessi luoghi.
Ma soprattutto significa fotografare in profondità, fotografare le proprie radici, comprendere qualcosa di più ogni giorno, di se stessi e forse del senso della propria esistenza.
Non mi sono mai sentito viareggino: in casa mia non si parlava viareggino, il carnevale l’ho “frequentato” da giovane senza mai sentirlo espressione della cultura cittadina, ho lavorato fuori città per 10 anni.
Ma adesso queste radici cominciano a farsi sentire: il senso di appartenenza si manifesta quando ti stanno a cuore le sorti di un luogo, quando ogni oltraggio perpetrato nei confronti della tua città o paese lo senti sulla tua pelle e ti fa male, quando in cuor tuo vorresti che tutti i talenti di cui quel luogo dispone venissero sfruttati e non nascosti o addirittura rubati da faccendieri senza scrupoli.
Allora uscire da soli, in bicicletta o a piedi, accompagnati dalla propria macchina fotografica è un pò andare alla ricerca di se stessi, cercando di capire quanto di quei luoghi è stato assorbito nel tempo, fino a divenire parte integrante del proprio carattere e della propria personalità.
Fotografare diventa quindi un atto di conoscenza e comprensione, diviene un processo attivo che non si limita a registrare sul sensore semplicemente qualcosa di esterno, ma bensì a proiettare sull’esterno le proprie sensazioni – come fossero un’ ulteriore sorgente di luce con cui illuminare la scena – per poi raccoglierle in una fotografia, mischiate inscindibilmente con i luoghi.
Nella meravigliosa solitudine dell’atto fotografico emergono emozioni sopite, un desiderio di riscatto per quei luoghi; fierezza e amarezza, orgoglio e mestizia si mischiano in proporzioni sempre differenti e tutto ciò entra sommessamente a far parte delle fotografie attraverso un dettaglio, un punto di ripresa particolare, una condizione di luce che al tempo stesso occulta e rinviene, nasconde e fa emergere determinati aspetti.
Tutto diviene importante per veicolare sentimenti e stati d’animo attraverso una fotografia che sia prima di tutto espressione del luogo: non è mia intenzione fotografare un’ emozione, come fosse un generico aforisma trovato all’interno di un bacio perugina; è mio interesse associare quell’emozione ad un luogo.
La distanza a cui si allude nel titolo non è però una distanza fisica; non stiamo parlando di carote o cipolle ma di fotografia. Si tratta di una distanza culturale, mentale, etica; in alcuni casi spirituale. Vi sono quindi persone – poche in realtà – capaci di fotografare a Km Zero anche in continenti differenti dal loro, in realtà sociali e culturali così diverse dalla propria. Una di queste, la prima che mi viene in mente, potrebbe essere Gino Strada…..se avesse scelto di fare il fotografo.
Queste persone – che non voglio sminuire definendole “fotografi” – utilizzano la macchina fotografica come mezzo di espressione e di indagine e hanno sviluppato una tale consapevolezza e profondità di pensiero  da esser divenuti cittadini del mondo.

(eloj)