Mi chiedo se sia giusto, all’interno di un prestigioso concorso internazionale che si definisce “fotogiornalistico” utilizzare criteri di valutazione che pertengono più ad aspetti esteticoformali che non ad aspetti contenutisticoinformativi. Se non ci sia già, nella ricerca del bello, una sorta di rottura del patto tra fotografo(giornalista) e lettore. Cioè a dire: quanto del reale contenuto informativo viene sacrificato – dal fotografo prima, e dalla redazione successivamente – per inseguire aspetti compositivi e formali capaci di far presa sul lettore, che siano accattivanti e abbastanza forti da smuovere quel poco di sensibilità visiva ancora rimasta?
Per affrontare la questione cito due casi abbastanza noti:
Il primo è il caso Brian Walski, descritto anche nel libro “Un’autentica Bugia” di Michele Smargiassi.
La vicenda si svolge nel 2003: il giornalista sta coprendo la guerra in Iraq e invia alla redazione del Los Angeles Times un’immagine di un campo profughi, ottenuta unendo insieme due fotografie scattate a brevissima distanza di tempo, più o meno dal medesimo punto di ripresa. Con tale operazione, il giornalista riesce a produrre un’immagine ricca d’azione, col soldato americano che sembra intimare l’alt ad un padre con in braccio il figlio (allo stesso tempo, aggiungo io, sembra anche che qualcuno tra la folla faccia il verso con la mano al militare).
Walski viene licenziato in tronco per aver tradito i principi etici del giornale, avendo effettuato una leggera manomissione della realtà, senza per altro alterare o modificare minimamente – a mio avviso – il senso e la veridicità della scena ripresa.
In questo caso quindi, il giornale in questione, antepone a tutto delle stringenti regole comportamentali, definite ipocritamente etiche; intanto mi chiedo se tra queste regole non vi fosse anche quella di non omettere dei fatti importanti che potrebbero mostrare aspetti non in linea con gli orientamenti del giornale.
In soldoni: è più dannoso per il lettore “subire” un lieve fotomontaggio oppure non ricevere parte delle informazioni su una vicenda o su un evento?
Il secondo caso riguarda più da vicino il WPP, cioè l’ambito concorso fotogiornalistico del quale sto mettendo in discussione i criteri di valutazione.
Edizione WPP del 2010. Rudik si aggiudica il podio nella categoria Sport Features con la seguente immagine:
Successivamente viene squalificato perché i giudici, confrontando il raw con l’immagine finale hanno rilevato una manomissione contraria alle regole del WPP stesso.Vediamo di cosa si tratta:
Il fotografo ha cancellato un’antiestetica scarpa di un personaggio in secondo piano, che andava a sovrapporsi alla mano, divenuta poi soggetto proncipale della scena.
Di nuovo mi chiedo – visto che stiamo parlando di fotogiornalismo e non di fotografia staged o di fotografia artistica – se sia giusto per il lettore osservare quell’immagine in un bianco e nero sgranato che acquisisce così una drammaticità certamente smisurata rispetto alla realtà dei fatti, e se attraverso quell’immagine il lettore sia in grado di farsi un’idea quanto più attinente al vero, della situazione ripresa.
E mi chiedo altresì se sia giusto, che in un concorso fotogiornalistico sia più grave la cancellazione di una ininfluente scarpa, piuttosto che la manomissione del senso stesso della fotografia attraverso pesanti alterazioni formali ed estetiche – perchè di questo si tratta – della realtà rappresentata.
Veniamo così alle ultime edizioni del WPP.
Devo dire che dopo aver visto i premiati dell’edizione 2013 esposti a Lucca, ho deciso che non avrei più visitato a pagamento quel genere di mostra.
Il perchè è semplice, almeno dal mio punto di vista.
In alcuni casi c’è un’estetizzazione del dramma che trovo inaccettabile trattandosi di fotogiornalismo: contraria non dico a principi etici ma più semplicemente al comune buonsenso.
E’ da capire se le varie testate giornalistiche siano costrette ad adeguarsi loro malgrado ad una crescente insensibilità del loro pubblico, oppure, se questa insensibilità sia proprio stata generata dal bombardamento mediatico subito quotidianamente attraverso immagini sempre più eclatanti, crude e teatrali al tempo stesso.
In molti casi le fotografie premiate non sono più allusive, cioè non sono più indizi che il lettore dovrà poi ricomporre secondo la propria sensibilità, facendosi un personale quadro generale della situazione, ma divengono così esplicite da privare il lettore di una qualsiasi possibilità interpretativa. Le vicende non sono più raccontate attraverso un meccanismo metonimico che allude alla causa mostrando l’effetto, o al tutto mostrando dei particolari, ma vengono descritte attraverso immagini così esplicite da generare talvolta raccappriccio. Ricordo ancora la serie di Stephan Vanfleteren che si è aggiudicato nle 2013 il primo premio nella categoria “staged portraits” con un lavoro su una nave ospedale ormeggiata di fronte alle coste della Guinea. Le foto esibite a Lucca non erano sicuramente tra le peggiori rispetto all’intero lavoro.
Concludo queste poche e probabilmente imprecise considerazioni trattando un ulteriore aspetto che mi parrebbe essere emerso con le ultime edizioni del WPP e cioè quella tendenza a produrre fotografie che mostrino situazioni nelle quali i soggetti ripresi sono attori che interpretano se stessi o comunque sono ripresi in atteggiamenti e azioni che mai si sognerebbero di mettere in atto se qualcuno li stesse ossrvando; mi riferisco a scene di violenza all’interno delle mura di casa, o ad azioni teatralizzate che mostrano chiaramente l’atteggiamento recitativo assunto dai soggetti ripresi.
Stiamo ancora parlando di Fotogiornalismo, mi chiedo?
Perchè in conclusione io non critico il WPP nella sua funzione di concorso internazionale aperto ai soli professionisti; critico il fatto che esso si definisca un Concorso Fotogiornalistico.
Chissà se nel giro di pochi anni, le uniche immagini accettate dall’opinione pubblica non saranno quelle che mostrano la crudezza di un evento proprio nel momento in cui questo si consuma, come la deplorevole immagine del Viet Cong giustiziato con un colpo di rivoltella alla tempia, ripresa da Eddie Adams proprio nel momento in cui veniva premuto il grilletto da parte dell’ufficiale del Vietnam del Sud, con la quale Adams si è aggiudicato il premio Pulitzer e il WPP.
Susan Sontag si chiedeva se quel grilletto, in assenza del fotografo, sarebbe stato comunque premuto, e forse anche Eddie Adams deve esserselo chiesto più volte, negli anni successivi.
(eloj)