IL DITO – (un pomeriggio di domenica a speaker’s corner – london)

il dito - fotocollage di eloj
il dito – fotocollage di eloj

C’erano elementi ed atteggiamenti codificati e stereotipati in quegli oratori domenicali:
– un libro a cui far riferimento come depositario dell’unica verità
– l’allusione a qualcosa di superiore che giustificasse la loro presenza e il loro eloquio in qualità  di apostoli, di persone illuminate capaci di diffondere il verbo
– infine l’ammonimento per i presenti, ad attenersi a quanto da loro detto, se volevano sperare in una salvezza divina.

MA……..

– i libri erano molti
-“lassù” doveva essere abbastanza affollato
– infine i presenti si spostavano da una parte all’altra, impossibilitati quindi ad attenersi – pur volendo – a indicazioni spesso in contraddizione tra loro.

UNA FOTOGRAFIA CI DICE SEMPRE QUALCOSA ANCHE SUL FOTOGRAFO

contact sheet di eloj
contact sheet di eloj

Le scelte che conducono al risultato finale sono tutte espressione delle intenzioni dell’autore: alcune di esse consapevoli, la maggior parte inconsce; la loro analisi può consentirci quindi di ricostruire una sorta di identikit dei caratteri psicologici dell’autore.

L’ ABBANDONO DELLA MEMORIA COLLETTIVA

foto di eloj
Richiesta d’aiuto – foto di eloj

Uno dei sintomi più evidenti di una raggiunta consapevolezza fotografica è rappresentato dalla rinuncia ad alimentare con le proprie immagini la memoria collettiva, dedicandosi con maggior profitto e soddisfazione alla coltivazione della memoria individuale. Escludendo un limitatissimo numero di utilizzatori del mezzo fotografico, che per lavoro o per motivazioni documentative debbano riprodurre monumenti, edifici storici, luoghi famosi di svago o sedi di prestigiosi avvenimenti presenti e passati, la necessità di catturare col sensore una dettagliata visione di insieme, da cartolina diciamo, o un dettaglio significativo che caratterizzi in modo indiscusso l’oggetto di interesse si farà sentire sempre meno al crescere della propria consapevolezza visiva.

Isola del Giglio - foto di eloj
Isola del Giglio – foto di eloj

Ciò sarà giustificato oltre che da una precisa necessità individuale anche da un atteggiamento di buon senso: sarà sempre possibile trovare su una buona guida, o su una pubblicazione illustrata o addirittura su internet una fotocartolina scattata in condizioni perfette, magari da posizione privilegiata, che so, da un balcone privato o da una gru o magari da un pallone aerostatico o forse di mattina presto quando nessuno intralci la scena e sarà quindi inutile, ma soprattutto poco gratificante, raccogliere la nostra personale e solo decente visione d’insieme. Forse potremo amabilmente pavoneggiarci di fronte a coloro che quel luogo non l’abbiano mai visto, mostrandogli la nostra cattura: la ripresa centrale del Taj Mahal con la cupola riflessa nella lunga vasca, la Tour Eiffel ripresa da sotto o da sufficientemente lontano per averla tutta dentro la campitura fotografica, o la facciata del Duomo di Firenze anche se affetta da visibili linee cadenti. Quello che non potrà mai trovarsi in alcun libro o pubblicazione sarà invece ciò che la nostra personale ed unica sensibilità visiva e intellettiva saprà cogliere di quel posto iconicamente inflazionato. Ma per far questo è necessario uno sforzo ulteriore, perché non sarà sufficiente guardarsi intorno alla ricerca di una situazione già impacchettata e pronta per essere colta dalla nostra fotocamera; sarà necessario cercare quella situazione che in cuor nostro sappiamo esser presente anche se ancora in forma latente.

Le piante del vicino hanno fiorito sul mio terrazzo - foto di eloj
Le piante del vicino hanno fiorito sul mio terrazzo – foto di eloj

Cercarla con tutte le nostre facoltà arrivando talvolta quasi a crearla: sì ho detto crearla, come se la nostra intenzione si facesse principio organizzativo e strutturante della realtà, come se potesse talvolta interferire con il normale corso degli eventi, pilotandoli a nostro vantaggio. Non sto invocando poteri soprannaturali; esistono infinite realtà esperibili in un medesimo contesto: una formica vedrà una realtà diversa da quella vista da un bambino così come quella esperita da un adulto sarà diversa dalla realtà percepita da una mosca: ogni diverso punto di vista – vantage point in inglese – rappresenta una diversa realtà percepita: si può essere in mezzo a due soggetti e non coglierne il dialogo oppure trovarsi con gli stessi soggetti di fronte alla fotocamera e coglierli nella loro diversità o similarità, esasperandone somiglianze o diferrenze a nostro piacimento. Considerazioni analoghe valgono anche nel caso di immagini che intendano veicolare un concetto astratto o assurgere a simboli; mi rifersco a concetti come la pace, l’amore, la felicità, la solitudine o a condizioni simboliche come la povertà, l’abbandono, la tristezza, la rinascita. In questi casi, attingere alla memoria collettiva sortisce risultati se possibile peggiori del caso precedente, perché sarà facilissimo cadere in luoghi comuni, in immagini stereotipate e demagogiche: il bambino africano con le mosche e il moccolo al naso, il clochard all’angolo della strada, l’uomo seduto sulla panchina del parco, il muso di cane affacciato alle grate di una celletta del canile, la colomba in volo, il tramonto ammantato di rosa e anche le pubblicità dei mulini bianchi e dei biscotti di Banderas.

foto di eloj
Visione surreale della realtà – foto di eloj

La differenza che passa tra un fotoespressivo in cerca di frammenti di realtà capaci di alimentare la propria memoria individuale e l’utilizzatore di fotocamera orientato ad accumulare quegli stessi trofei che tutti espongono sulle mensole dei propri salotti, è la stessa che passa tra un viaggiatore e un turista alpitour o francorosso. Il turista alpitour verrà prelevato dalla Hall dell’albergo dopo una suntuosa colazione italiana, imbarcato su un pulman con aria condizionata sentendo quasi un po’ freddo nei climi torridi e un po’ caldo in quelli rigidi, scaricato di fronte alle attrazioni più significative del luogo, giusto il tempo di raccogliere qualche fototestimonianza che attesti il suo passaggio, e riportato in albergo la sera. Il viaggiatore invece dormirà in piccole Guest House, si muoverà con mezzi pubblici, farà colazione in un mercato cittadino secondo le tradizioni del luogo, raggiungerà a fatica qualche importante monumento ma nel frattempo avrà già familiarizzato con i luoghi e interagito con le persone del posto e avrà accumulato tutta una serie di piccole e significativamente insignificanti esperienze che alimenteranno il suo personale ricordo del posto; addirittura sarà proprio in presenza di qualche contrattempo – una ruota bucata del motorino, un guasto al bus con successivo trasbordo – che la sua esperienza potrà farsi ancora più personale ed unica.

foto di eloj
Nepal, interno ristorante – foto di eloj

E così sarà per il fotoespressivo: si muoverà in spazi anonimi e marginali, alla ricerca di un insignificante particolare capace di gettare luci su realtà più grandi; cercherà di alludere con le proprie immagini e non di mostrare esplicitamente; metterà in comunicazione elementi distanti creando nuove associazioni visive e concettuali così da indurre riflessioni in chi osserverà le sue immagini. Insomma, costruirà una metarealtà con la quale indagare e scandagliare la realtà stessa cercando di trarne un senso, per sé e per gli altri.

LA FOTOGRAFIA PROSPERA NELL’IMPERFEZIONE

foto di eloj
foto di eloj

Si può ritenere, con ragionevole certezza che nell’ ALDILA’ non vi siano OMBRE.
Non solo, ma tutto è così sublime e perfetto che non v’è ragione alcuna per catturarne una parte con una una fotografia, visto che nemmeno il concetto di tempo è applicabile in quel luogo e che quindi ciò che vediamo in un certo istante lo avremo già visto da un’ eternità e continueremo a vederlo per un’altra eternità.

Da ciò consegue che: primo, la Fotografia è espressione di imperfezione e secondo, che è necessario darsi da fare il più possibile adesso!

PERCHE’ E’ D’OBBLIGO SCATTARE POCO ANCHE E SOPRATTUTTO NELL’ERA DEL DIGITALE?

Cuore e TestaSono più che convinto che nel momento in cui scattiamo, facciamo appello alle nostre facoltà razionali ma anche a qualcosa di parzialmente autonomo e fuori dalla nostra consapevolezza.
Quel qualcosa è l’istinto!
Non mi riferisco all’istinto primigenio che spinge le oche a migrare o i ragni a tessere la tela e che nell’essere umano si manifesta ad esempio nella ricerca del seno materno. Parlo di un istinto che si acquisisce con l’esperienza, ma che a differenza dell’abilità, si manifesta in modo pressochè inconsapevole. Quando vediamo di fronte a noi qualcosa che ci induce a scattare, siamo ispirati da processi consapevoli e inconsci, mischiati e miscelati in rapporti ogni volta diversi. Talvolta sarà più un processo razionale e consapevole a guidarci, riscontrando nel dato reale qualità compositive, cromatiche o accadimenti degni di essere “raccolti”, altre volte invece, la gestione della situazione sarà più “in balia” di processi irrazionali e inconsci. In quest’ultimo caso potrà capitare di scattare e non essere poi pienamente soddisfatti del risultato.
Ma l’istinto di cui parlo è acquisito attraverso una lenta e progressiva sedimentazione di consapevolezze e ciò implica che si manifesterà con uguali modalità anche in seguito.
Molti sostengono di riuscire ad apprezzare alcune loro fotografie, soltanto a distanza di tempo dal momento dello scatto, come se al primo sviluppo che ha portato l’immagine latente a rendersi manifesta, seguisse un secondo sviluppo che “rivelasse” gli elementi raccolti istintualmente e presenti nell’immagine, portandoli ad un livello razionale e quindi comprensibile.
Ma affinchè questo processo possa aver luogo, è necessario poter rivedere a distanza di tempo i propri scatti, e ciò è possibile soltanto se avremo avuto un atteggiamento rispettoso e morigerato nei confronti del pulsante di scatto, perché altrimenti quegli “scatti istintuali” saranno persi per sempre in un mare di figurine della Panini che nessuno mai attaccherà nell’Album.